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10 giorni sono bastati a rovesciare tutte le idee (sbagliate) che, chissà perché, avevo sul Burundi

Dieci giorni sono bastati a rovesciare tutte le idee (sbagliate) che, chissà perché, avevo sul Burundi. Questo petit pays è ai primi posti nelle classifiche dei paesi più poveri del mondo. La guerra civile, iniziata nel 1994, ne ha complicato e rallentato lo sviluppo. Solo una percentuale bassissima della popolazione ha accesso all’elettricità. Il parto è ancora una delle principali cause di morte e l'analfabetismo è una triste realtà. Con l’inflazione che viaggia intorno al 30%, il paese vive un equilibrio precario. La sensazione è quella di una società che vive sul filo del rasoio. Una quiete apparente, come un sorriso che maschera ferite profonde. Nonostante questi problemi enormi, l’atmosfera che si respira è inaspettatamente serena. È impossibile non farsi coinvolgere dall’incredibile bellezza di questo paese rigoglioso: piantagioni sconfinate di banane, tè, caffè, canna da zucchero; foreste sacre frequentate dai pigmei che ancora oggi scelgono con cura parti di corteccia ed erbe per preparare infusi medicinali; montagne e colline con mille sfumature di verde; paludi di papiri; cascate imponenti e un lago tanto grande da ricordare il mare. La natura è pura e potente, i paesaggi incontaminati. Ho quasi la sensazione di essere la prima persona a godere di questo spettacolo.


Bujumbura si presenta estremamente pulita. Forse è la mia prospettiva ad essere cambiata da quando vivo a Bamako che, purtroppo, è una città sporca, polverosa, dove la povertà è visibile ad ogni angolo di strada. Buja, come la chiamano i locals, mi ha stupita per il suo ordine; ragazze e ragazzi passeggiano tranquillamente per le strade con vestiti colorati mentre la mattina fanno l’autostop per arrivare in università o a lavoro. Il 90% delle auto sono acquistate in Giappone e quindi con la guida a destra, nonostante le strade siano organizzate per la guida a sinistra. Questo crea una confusione enorme. Tuttavia, Ulrich, la guida che mi ha accompagnato in giro per la città, mi dice fiero di non preoccuparmi perché sono tutti ottimi guidatori; io resto però basita dal traffico e dai 5 incidenti a cui ho assistito in un solo pomeriggio!






Usciti dalla città, lasciato il lago Tanganica, cominciamo a viaggiare all’interno del paese. Per ore la strada è in salita. Il Burundi è tutto così. Un sali-scendi di verdi colline, di strade, e un po' mi sembra che rifletta anche le emozioni di chi ci vive. Dall’altro lato della strada vedo scendere biciclette veloci come missili, cariche di ogni tipo di bene. Sono i ragazzi che dai paesi vanno a vendere i prodotti in città. Hanno tutti i piedi sulla canna della bici mentre si lanciano in pericolose traiettorie, tagliando le curve ad una velocità altissima, con una scarpa dalla suola rinforzata da usare come freno d’emergenza. Portano dei carichi enormi, sacchi stracolmi, cassette impilate, travi, lunghissime canne di bambù. Sulla nostra corsia, invece, ci sono ragazzi che a piedi o con le bici si agganciano ai camion per farsi trainare su e risparmiare energie durante le lunghe salite. Incontriamo villaggi bellissimi e colorati. Le insegne mi rapiscono: salon de coiffeur Dubai o Star, Patisserie Peace, ristorante Bethlem, caffè Amahoro, caffetteria Shalom. La strada sembra essere avvolta dalla natura. Ogni villaggio ha una sua porta di entrata composta da bastoni in legno ricoperti di foglie o bandierine. Donne e bambini vendono bustine di frutta: piccole prugne arancioni e dolcissime; prugne giapponesi da mangiare premendo la polpa direttamente in bocca; canna da zucchero tagliata a pezzetti e poi noccioline, uova sode o palline di ubusagwe, una pasta di manioca dalla consistenza simile alla polenta, arrotolate in foglie di banano profumate.






Una mattina siamo partiti molto presto dal villaggio di Kirundo, al confine con il Ruanda, per aspettare l’alba da una piroga nel lago Rwihinda, anche detto lac aux oiseaux, lago degli uccelli. Viene chiamato così perché è il sito di passaggio e ibernazione di circa 20 specie di uccelli migratori. Arrivano dall’Europa a dicembre e ripartono ad aprile. Il lago ha degli isolotti galleggianti che si muovono con il vento, costituendo un habitat ideale di deposizione delle uova e di nidificazione. La magia della bruma, il silenzio, i remi che attraversano l’acqua e il cinguettio degli uccelli. Mi sento un’esploratrice alla scoperta di un mondo nuovo, puro e inviolabile. Ogni tanto appaiono, tra i cespugli galleggianti dei ragazzi che su piccole zattere fatte di bambù sono intenti a pescare. Abbiamo avuto l’opportunità di assistere allo spettacolo dei Tambourinaires de Gishora. La nostra guida, Desiré, ce ne aveva parlato con toni entusiasti. All’inizio eravamo un po' scettici, credevamo fosse un’esibizione per i turisti, ma lui ha insistito promettendoci che avremmo assistito a qualcosa di unico. Siamo arrivati a Gitega, capitale politica del paese, confusa e caotica. Abbiamo fatto un piccolo giro al mercato dove abbiamo assistito ad un furto di arance che si è concluso con grandi risate da parte delle donne che le vendevano. Nonostante avessero subito un torto e la metà delle arance fossero cadute in un canale di scolo, erano li che se la ridevano allegramente. Resto stupita e le ammiro per la resilienza. Da lì ci siamo recati su una collina vicina. Il capo dei Tambourinaires ci ha accolti sorridente e ci ha fatto accomodare su delle panche di legno. Nel frattempo ha cominciato a piovere. Dopo qualche minuto abbiamo cominciato a sentire le vibrazioni dei tamburi. In lontananza, poi sempre più vicini. Anche l’aria ha cominciato a tremare. 40 tamburi. 40 uomini. A piedi nudi sulla terra rossa, sotto una pioggia spessa, abbiamo assistito ad uno spettacolo di rara intensità che mi ha colpita dritto allo stomaco. La potenza delle vibrazioni; l’agilità dei movimenti, dei salti; la semplicità e la bellezza degli artisti. La storia dei Tambourinaires risale all'epoca della monarchia e oggi i tamburi reali fanno parte del Patrimonio UNESCO. L'intera popolazione del Burundi riconosce questa danza come parte fondamentale del proprio patrimonio e della propria identità culturale. Questo spettacolo rituale viene eseguito durante le feste nazionali o locali e per dare il benvenuto a visitatori illustri, e si ritiene che risvegli gli spiriti degli antenati e scacci gli spiriti maligni. Oggi è un'occasione per trasmettere messaggi culturali, politici e sociali, oltre che un mezzo privilegiato per riunire persone di generazioni e provenienze diverse, promuovendo così l'unità e la coesione sociale.





Durante questo viaggio abbandono il cellulare, lo uso solo per scattare delle foto. Mi scollego per qualche giorno dal mondo ed è una bellissima sensazione. Sono concentrata su quello che vivo momento per momento. Con il tempo sto imparando sempre di più ad avere pazienza, a regolarmi sul ritmo africano. Anche qui, come in Mali, cinque minuti possono diventare trentacinque; l’attesa a tavola per la cena in un ristorante può essere lunghissima e si può rimanere intrappolati nel traffico per ore e ore. Quando entriamo nei villaggi sembra che sulle strade ci siano delle vedette che avvertono gli abitanti del nostro arrivo. Umuzungu!! Oppure abazungu!!, urlano contenti salutandoci al nostro passaggio. Un bianco o dei bianchi! Ridono di gusto, i bambini ci corrono incontro. Nei villaggi più remoti ho adocchiato donne sgranare gli occhi alla nostra vista. Donne forti, che tagliano la legna sul ciglio della strada, che portano sulla testa carichi ingombranti, curano la terra, vendono il grano o allattano i bambini sedute sulle porte di casa. La domenica dopo la chiesa sono tutti al mercato. Mi sembra una società equilibrata, uomini e donne bevono birra di banane insieme, ben vestiti per onorare il giorno di festa, il pomeriggio scorre allegramente.





Sulla strada incontriamo un numero infinito di chiese che convivono con un numero molto più piccolo di moschee. Il protestantesimo e altre forme di cristianesimo, costituiscono il secondo blocco più grande di credenze religiose del paese dopo il cattolicesimo. Chiese anglicane, evangeliche, avventisti del settimo giorno. Le incontriamo una dopo l’altra, grandi, piccole, e molte altre in costruzione. La vita e le giornate dei burundesi sono profondamente legate all’attività religiosa. Quando passeggiamo a piedi spesso incrociamo gruppetti di bambini che decidono di condividere un tratto di strada con noi. Come sempre il linguaggio dei gesti prevale. Sono attratti dalla macchina fotografica e mi chiedono di scattare delle foto. Si mettono in pose buffe e allora scatto, ridono, fanno mille smorfie e sorrisi. Mi chiedo come potrò mai fargli arrivare queste foto. In questi giorni ci ha accompagnati un libro, Petit Pays di Gael Faye, nato in Burundi nel 1982 da madre ruandese e padre francese. Racconta di come questo paese sia stato brutalmente maltrattato. Parla di un mondo andato, perduto per sempre, e della furia del destino. Angoli di felicità spazzati via, senza motivo. Mi guardo intorno e proprio non capisco l’odio che siamo capaci di spargere senza senso. In questo paradiso, nel vicino Ruanda, e via via in tanti altri paesi di questo mondo profanato da noi stessi. Un pensiero banale, ma davanti a tanta bellezza e gentilezza, un pensiero che resta inspiegabile.



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