top of page
  • robertadamore

Storie dal Mali // Gli occhi delle donne di Bamako


Mashallah (come Dio ha voluto) è un’espressione araba usata per esprimere gioia, sorpresa, grande meraviglia, rispetto e gratitudine. Ci sono dei momenti, soprattutto mentre viaggio in auto per le strade di Bamako, in cui penso tra me e me “Mashallah”. Oggi ad esempio, quando dal finestrino una donna mi ha sorriso, senza motivo. Quel sorriso mi ha spiazzata. O quando, qualche giorno fa, una bambina mi ha salutato mentre faceva il bucato fuori casa, praticamente sul ciglio della strada. E poi ci sono momenti in cui quello che vedo mi spezza il cuore. I miei occhi non si sono ancora abituati (per fortuna?) alla povertà, alla decadenza e alla miseria di Bamako. Non ho ancora imparato una parola in arabo o bambara da utilizzare in questi casi.


Ma le due emozioni, gratitudine e sconforto, spesso arrivano l’una dopo l’altra, si sovrappongono.

Preferisco viaggiare in auto con Traorè perché, mentre lui guida, posso approfittarne per guardare fuori e abbandonarmi alla vita che scorre al di là del finestrino. Una vita che non si spegne mai, neanche a notte fonda. Prima di arrivare al laboratorio di Aminata, percorriamo la lunga e caotica strada di Koulikoro, il quartiere Soutuba e poi attraversiamo il terzo ponte. Bamako ha tre ponti a congiungere le due sponde del fiume Niger che divide la città; i ponti però non hanno un nome vero e proprio, ma il loro nome richiama unicamente l’ordine con cui sono stati costruiti.

Il traffico è pazzesco. Per strada ci sono centinaia di katakatani, una specie di tre ruote che viene utilizzato per trasportare ogni tipo di merce, persone, animali, o a volte tutte e tre le categorie insieme. In coda nel traffico davanti a noi c’è un katakatani con cinque donne sedute su delle casse di banane; chiacchierano, ridono, probabilmente si recano al mercato. A volte, i katakatani sono talmente carichi che non mi spiego come facciano a non ribaltarsi. Altre volte vedo ragazzi dormire tranquilli, adagiati sul carico di sacchi o incastrati tra scatole e casse di prodotti vari. Fiumi di moto ci tagliano la strada da ogni lato. Il motorino è il mezzo di trasporto ufficiale per tutta la famiglia. I neonati viaggiano legati stretti alle schiene delle mamme con un leggero pezzo di stoffa, con i piedini che sbucano sui lati, e le piccole teste sudate dondolanti.

Osservo le mucche mentre si aggirano con il loro portamento ondeggiante sul ciglio della strada mangiando quello che trovano, purtroppo spesso plastica e rifiuti. Le incontriamo di sera, quando intere mandrie si impossessano della strada, attraversando la città in quella che sembra una transumanza contemporanea. Un montone prova a liberarsi dalla corda che lo tiene legato al suo padrone che lo strattona con forza; le donne nei loro vestiti di cotone wax colorati, con semplici pezzi di stoffa legati in testa risultano naturalmente eleganti. Inginocchiate a terra con ai piedi grandi pentoloni, friggono gallette di farina di miglio o arrostiscono pannocchie.

Ecco i banchi con la carne, a volte appesa, a volte sistemata a terra in mucchietti precisi, sulla pelle dell’animale; la frutta colorata ben ordinata, i cesti di mango, papaya e in questo periodo del frutto che in bambara chiamano zum zum, lo sugar apple, di cui mi sono innamorata per la sua dolcezza. Ha la forma di una pigna, con il sapore di una torta di mele. I miei occhi si perdono tra centinaia di immagini: piramidi di arachidi tostate; tre asini che provano con difficoltà ad attraversare la strada. Un uomo che travasa benzina con un imbuto in bottiglie di vetro, nella sua rustica pompa di benzina; montagne di pesce essiccato distese a terra, che emanano un odore fortissimo, costringendomi a chiudere il finestrino. Un sarto che gira in bicicletta con la macchina da cucire legata sul portapacchi, fermandosi ogni tanto in attesa di un cliente. Un cagnolino che rovista tra i rifiuti alla ricerca di avanzi. E poi le comitive di bambini che corrono all’improvviso da un lato all’altro della strada, spesso mano nella mano. Sono il cuore pulsante di Bamako, sono tantissimi. Ci fermiamo ad un semaforo, ed ecco apparire i bambini della scuola coranica. Li riconosco dal secchiello di plastica che hanno legato a tracolla con uno spago. Traorè mi dice che spesso vengono abbandonati dalle famiglie alle scuole coraniche, le madrase. Queste dovrebbero garantire ai bambini almeno un pasto al giorno, chiedendo in cambio lavoro nei campi ma, più spesso, spingendoli invece a chiedere l’elemosina per strada. Di frequente, purtroppo, anche quell’unico pasto non viene garantito, e i bambini sono abbandonati a loro stessi, senza neppure un posto dove dormire. La mattina molto presto è possibile vederli risvegliarsi sul ciglio della strada. Quando li guardo negli occhi scopro uno sguardo adulto, duro, disperato ma sempre pronto a schiudersi in un sorriso.

Dopo aver percorso un altro po' di strada e aver atteso un camion che si è quasi ribaltato bloccando la strada, arriviamo finalmente al laboratorio di Aminata. Attraverso la grata blu di ferro, entro nel piccolo patio condiviso con un negozio di spezie. Il laboratorio consiste di una stanza dalle pareti giallo senape con una finestra da cui si vedono e sentono dei montoni belare. Disposte all’interno, tre macchine da cucire e una per la finitura. Ci vado una volta a settimana e mi piace entrare in questa piccola bottega tutta al femminile. Aminata mi accoglie con un gran sorriso vero, genuino. Anche qui i bambini sono tanti. Riconoscono l’auto da lontano e vanno a chiamare il resto della comitiva. Mi corrono incontro sorridenti. Credo che ormai si siano affezionati a questa strana toubab dai capelli lunghi, anche se quando li porto sciolti non perdono occasione per accarezzarli.

Abbiamo un nostro piccolo rituale di saluti e risate per piccole cose, coccoliamo il gattino e il cagnolino appena nati, poi mangiamo delle caramelle. Infine si siedono nel patio, incuriositi dalla mia presenza. Il laboratorio di Ami, come dice l’insegna, è un ritrovo di donne. A volte c’è Fatoumata seduta a terra intenta a disegnare con l’henné su mani e piedi di ragazze o bambine. Comincia tracciando il profilo con delle strisce sottili di tape. Poi disegna intorno. Nel frattempo Oumou, che le ragazze però chiamano Batoman, cuce a macchina con il figlio più piccolo legato dietro la schiena. Guardiamo i nuovi modelli, quando li misuro mi dicono ridendo: Sembri proprio una maliana cosi!

La suocera di Aminata passa sempre a salutarci; è una donna molto anziana, o almeno lo sembra. Come molti abitanti di Bamako, non credo conosca la sua età esatta. Non parla francese e si diverte a scambiare due parole in bambara con me: annisokoma, le dico! Buongiorno. Ikkakene. Come va? Eredrò! Kambè! Tutto bene, a presto. Sempre le stesse, ma non sembra importarle, anzi, credo che apprezzi lo sforzo. Mi piace parlare con Aminata e le ragazze, pongo un sacco di domande. Sono incuriosita dalle cicatrici ornamentali sul volto. Aminata, ad esempio, ha due piccole cicatrici al lato degli occhi. Mi spiega che in realtà questo è un segno di appartenenza all’etnia peul, una popolazione tradizionalmente composta da pastori nomadi, mentre lei è una bozo, etnia di pescatori. Da piccola però, per nascondere la cicatrice della ferita che si era procurata con una caduta dal motorino, le hanno fatto questi due piccoli segni accanto agli occhi. Non smette di ridere mentre mi racconta questa storia insolita.

Si è fatto tardi, devo andare via se non voglio restare bloccata nel traffico dell’ora di punta. Un altro viaggio mi attende. I bambini mi abbracciano, à demain! Urlano! Kambè, rispondo! Durante il viaggio di ritorno ripenso all’energia che mi riempie quando passo del tempo con Aminata, Oumou e le altre ragazze. È come se mi trasmettessero ogni volta un po' della calma e della resilienza che le caratterizzano. Nonostante le grandi difficoltà di ogni giorno, c’è spazio per un sano spirito giocoso, per una onesta serenità, per la gioia delle piccole cose, che nelle nostre vite occidentali abbiamo smesso di notare.

Ho conosciuto Aminata appena arrivata a Bamako perché cercavo una sarta con cui creare un laboratorio di sartoria. Da quel primo incontro sono cambiate tante cose. Aminata lavorava in casa e oggi dopo quasi due anni è riuscita ad acquistare due macchine da cucire, aprire il suo laboratorio e dare a sua volta lavoro ad altre donne. La prima volta che ci siamo incontrate ricordo che non mi guardava neanche negli occhi e dovevo discutere del lavoro da fare con il marito. Oggi è una donna radiosa, ha tante idee ed in parte è indipendente. Questo era lo scopo del progetto che avevo immaginato. Indipendenza: creare abiti per intraprendere e raccontare storie di libertà ed emancipazione. La giornata è quasi finita. La sensazione che provo è un contrasto di gratitudine e malinconia per quello che mi circonda, per tutte le vite e le immagini che scorrendo davanti ai miei occhi, sono entrate a far parte di me.


9 visualizzazioni0 commenti

Kommentare


bottom of page