La maggior parte delle volte scatto dal finestrino dell’auto. Mi sembra di fare qualcosa di sbagliato, di rubare un momento, un pezzetto di vita che non mi appartiene. Il Mali non è come gli altri Paesi in cui sono stata. La macchina fotografica viene vista con diffidenza, specialmente in mano ad una “toubab”, una bianca. Eccola, l’ennesima viaggiatrice che vuole vendere immagini di un paese povero e devastato. Eppure non è stato sempre così. Basta guardare le fotografie di Malik Sidibé per respirare il clima di una Bamako vivace, di una gioventù libera e moderna. Ma non siamo più negli anni ’60, non ci sono più turisti al Grand Marché e oggi è quasi impossibile visitare Timbuctu o i caratteristici Pays Dogon. Allora smetto di fotografare, poggio la macchina fotografica sulle gambe e provo ad assorbire tutto quello che vedo nella mia memoria, sperando di non dimenticare. Se potessi scegliere un super potere vorrei poter scattare foto con un battito delle ciglia per immortalare la bellezza e la dignità di queste persone, l’immensità degli sguardi dei ragazzi e delle ragazze che incrocio per brevi attimi nelle strade frenetiche di Bamako. Non li vedrò mai più. La dolcezza dei bambini, le rughe delle mani degli anziani, le sfumature della luce sulla terra rossa, l’eleganza delle camminate ondeggianti e dei tanti piccoli gesti quotidiani. Vite diverse, irraggiungibili che mi scorrono rapide accanto senza che io possa afferrarle.
Vivo a Bamako ormai da un anno, e uno dei giorni più emozionanti è stato quando Aminata mi ha chiesto di accompagnarla al villaggio dove vive parte della sua famiglia. Così, una domenica pomeriggio di maggio con 45 gradi all’ombra, io, Aminata e le sue due figlie di 10 e 2 anni aspettiamo sedute su un muretto sulla riva del fiume Niger. Chi aspettiamo non lo so di preciso, so solo che il villaggio si trova su un’isoletta sul fiume. Dopo mezz’ora di attesa, arriva una piroga con a bordo tre bambini e una bambina. "Ottimo", penso io. Mentre saliamo su questa barchetta di legno tradizionale, ricavata da un tronco d’albero, ci raggiunge anche un’altra bambina che lasceremo su una prima isola. Lei va a raccogliere l’insalata, mi viene spiegato. Il capitano bambino è molto serio, mentre gli altri due giocano a schizzarsi con l’acqua nera del fiume, lui mantiene la rotta senza indugi. Io ho i piedi completamente bagnati, e l’unico pensiero è "ora affondiamo in quest’acqua nera e addio macchina fotografica!". Inaspettatamente arriviamo a destinazione senza nessun problema e, senza preavviso, mi trovo catapultata in una realtà diversa e sorprendente. I bambini corrono via mentre Aminata comincia a raccontarmi la storia delle famiglie che vivono su questa piccola isola. Pescano e hanno gli animali, gli uomini vanno spesso in città per vendere o comprare quello di cui hanno bisogno. Le donne, invece, si occupano dei bambini e cucinano.
Arriviamo in una piccola casetta spoglia dove sei o sette donne sono sedute a terra a prendere il tè. Parlano in bambara, una delle più importanti lingue dell'Africa occidentale e la più parlata in Mali, ma a gesti riusciamo a comprenderci. Mi offrono dell’acqua in una tazza di alluminio e un bicchierino di tè. Le imito e mi siedo sul pavimento insieme a loro. Le sento ridere in maniera animata. Stanno ridendo di me, lo capisco, ma non so il perché. Non me la prendo ma, curiosa, chiedo ad Aminata in francese se abbia fatto qualcosa di sbagliato, di ridicolo. "Ma no! Non ti preoccupare! Pensano che ti abbia portata qui per regalarti a mio fratello! Ma ho spiegato che non è cosi!". "Fantastico!". Penso, ma anche io non riesco a trattenere le risate al pensiero di essere diventata un regalo, anche se solo per pochi minuti. "Andiamo a sederci sotto l’albero". E così ci sediamo in cerchio, sulle stuoie, bidoni capovolti, sedie di plastica, piccoli sgabelli di fortuna.
Intanto, la figlia maggiore di Aminata ci serve, porta l’acqua, va a prendere il riso con il pesce secco, fa mangiare la sorellina più piccola, se ne prende cura. Ha 10 anni ma è già una donna. Non parla, svolge i suoi compiti e ad un solo sguardo della mamma agisce, sposta cose, prende quello che occorre. Io sono incantata. Guardo le donne allattare i tanti bambini che ci sono e capisco che non allattano solo i loro figli, ma qualsiasi bambino gli capiti sottomano. Tutti devono mangiare e chi ha latte sfama. Capisco che queste donne sono un gruppo allegro e felice. Giocano, si prendono in giro, si rincorrono. Ad un certo punto, giocando, strappano la maglietta ad una di loro rivelando un seno svuotato che mi lascia senza parole. Una cosa del genere l’avevo vista solo nei documentari National Geographic. Il seno le arrivava sotto la pancia. Quanti bambini avrà allattato? A che età avrà cominciato? Quanti anni ha? Vorrei fare tante domande, ma ho paura di risultare inopportuna, così continuo ad osservare e a scattare memorie con la mia macchina fotografica immaginaria. Ad un certo punto sento una donna urlare in francese: "Dov’è la bianca? Anche io voglio vedere la bianca!" Eccomi qui, bianca sono bianca. Stanca e sudata, perché ci sono 45 gradi e ancora non mi sono abituata a queste temperature.
Mi osserva, io mi sento cosi fragile, inadatta. Mi chiede come sto, è la prima persona che mi parla in francese. Mi guarda un po’ stranita. Chissà cosa pensa di me. Troppo magra, probabilmente. "Quanti figli hai?" Nessuno. Ecco, ora è chiaro che proprio non mi rispetta. Sei vecchia, sta pensando. "Perché non hai figli?". È impensabile per questa donna. Rispondo con un sorriso imbarazzato, che somiglia più ad una smorfia. Continuiamo a bere tè. Ormai si sono abituate alla mia presenza, allora mi avvicino al gruppo di bambini, sono tantissimi. Alcuni dormono su piccole stuoie sbiadite nonostante il caldo insopportabile. Cominciamo a fare amicizia.
Io canto una canzone, la solita sugli animali, l’unica che conosco accompagnandola con la mimica necessaria. Loro si divertono, la timidezza sparisce e mi chiedono di cantarla ancora e ancora. Lentamente prendono confidenza, mi toccano curiosi le unghie dei piedi. Nonostante siano un po' polverosi si vede lo smalto rosa che li affascina. Poi passano ai capelli. Ne toccano la consistenza, molto diversa da quella a cui sono abituati, li pettinano con le mani. Mi portano in giro a conoscere l’isola mostrandomi gli animali, le mucche, le oche, gli uccelli, gli alberi di mango. Sono entusiasti. Ridiamo, corrono, mi prendono per mano. Vogliono starmi tutti vicino. La giornata è trascorsa più rapidamente di quanto volessi ed è già ora di andare via. Mentre ci allontaniamo una donna mi regala un grande fascio di erba citronella appena tagliata. Il profumo è intenso, sa di estate, di fresco e di pulito. Andiamo dove si aspetta la piroga, rigorosamente accompagnati dalla comitiva di bambini, che ci scorta fino all’ultimo momento. Poi ridono in modo teatrale quando mi vedono in difficoltà mentre cerco di arrampicarmi goffamente sulla piroga. Alcuni fanno i tuffi vestiti, nuotano nel fiume e poi si arrampicano di nuovo su per tuffarsi ancora. Ho il cuore che mi scoppia. Quante emozioni possiamo sostenere in un solo giorno? Quanta vita possiamo abbracciare? La mia memoria è già piena di immagini ed emozioni. Prometto a me stessa di tornare. La felicità, oggi, mi sembra un concetto semplice.
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